La natura umana…..

“Dialogo tra
Freud e Einstein sulla Natura Umana”

Albert Einstein
e Sigmund Freud, alla fine degli anni ’30, discutono intorno alla natura umana
e alla sua tendenza a commettere bestialità e atti contro ragione, come la
guerra. Freud è scettico  sulla possibilità di eliminare l’irrazionalità umana.

 

F. “Herr Albert, gli uomini vivono in verità in una
condizione assai più miserrima di tutte le creature viventi del Mondo, vegetali
o animali che siano, e tale loro condizione è essenzialmente dovuta alla
stoltezza e alla miopia che troppo spesso guida le loro azioni. Quale, fra le
bestie del creato, è dotata di raziocinio e intelligenza tale da poter
autonomamente decidere cosa è bene, cosa è male, cosa è azione morale, cosa non
lo è? E quale razza animale, casomai dotata di ragione per un improvviso dono
della Volontà Divina, agirebbe, conseguito un tale strumento di giudizio del
proprio agire, contro di essa? Perché è tale la condizione umana: agire contro
ragione.

Diverso tempo fa un tale filosofo che era detto illuminista di nome
Voltaire disse che il genere umano era l’unica razza che, nella barbara pratica
della guerra, prendeva spontaneamente, e per di più – cosa che era la somma dei
mali – collettivamente, la decisione di autodistruggere la propria ragione,
concludendo perciò che la guerra ERA un atto contro ragione. Il suo pensiero,
come sicuramente ricorderai, influenzò in maniera notevolissima l’immaginario
collettivo europeo, abituato sino ad allora a considerare la guerra come una
consuetudine del panorama politico del Vecchio Continente. Si cominciò per la
prima volta a discorrere nelle anticamere dei circoli intellettuali di
eguaglianza dei popoli, di libertà di pensiero, di dominio del mondo tramite la
ragione, persino di perpetuo bando di ogni forma di guerra… eppure,
storicamente parlando, questo programma fallì miseramente, come poi confermato
da una molteplicità di eventi successivi, taluni molto prossimi a noi e di
gravità spaventosa. Voltaire, come molti pensatori del suo tempo credeva nella ragione
e, grazie a questo, nella facoltà umana di saper controllare e reprimere i suoi
istinti bestiali. Era una mera illusione”.

E. “Eppure Sigmund, il mondo ha saputo conoscere
momenti di pace e stabilità, favoriti anche dallo stesso genere umano, il quale
ha saputo prodigarsi, in taluni barlumi di razionalità, per il progresso
scientifico e il miglioramento di vita e società”.

F. “Esatto, giustissime parole! L’uomo sinora ha
saputo agire degnamente solo durante “barlumi” di razionalità, sempre e
comunque preceduti e seguiti da oceani di tenebre dove il genere umano
sguazzava letteralmente nelle sue pulsioni, nei suoi istinti. A ragione Hobbes
diceva “homo homini lupus”, visto il comportamento bestiale del genere umano.
Neppure il Maclavellus lesinava commenti nei suoi Discorsi sopra la prima Deca
di Tito Livio, dipingendo gli uomini (incoraggiandoli in realtà in tale
atteggiamento) come esseri ipocriti, falsi e opportunisti, spinti naturalmente
alla guerra per ingordigia e sete di potere e all’utilizzo spregiudicato della
loro arguzia.

Non sono eloquenti questi esempi? Non dimostrano quanto

sia incurabile il cancro che divora la mente e le azioni umane spingendole
all’autodistruzione?”

E. “Tale è verità; tuttavia Schopenauer, voce
altrettanto autorevole, poneva nella volontà di vivere il fondamento sul quale
si reggeva il mondo e le azioni umane. Partendo da queste riflessioni si
potrebbe pensare che gli atti contro ragione – tra cui la guerra – siano
impensabili, perché andrebbero contro la stessa Volontà. E’ possibile perciò
che la causa delle dissennatezze umane non stia dentro l’uomo, ma piuttosto
fuori dall’uomo, o che questo non sia totalmente responsabile delle proprie
azioni in taluni momenti della sua esistenza”.

F. “Interessante posizione; tuttavia, a proposito
del filosofo di Danzica, posso citarti Hegel, la cui filosofia era agli
antipodi proprio rispetto a Schopenauer. Hegel sosteneva infatti – ed era uno
dei massimi esponenti della Neuweltansschaung tedesca – che la guerra non solo
era necessaria ma inevitabile e utile a rafforzare gli animi e i corpi degli
uomini, nonché un atto di grande ETICITA’. Non pare anche a te una
farneticazione assurda dettata da una improvvisa perdita del lume del senno?
Eppure Hegel, a detta del popolo tedesco, è stato un patrono del rinnovamento
culturale dell’area germanica.

Da questo capisci che non solo l’uomo agisce senza
senno spinto dalle proprie pulsioni irrazionali, ma talvolta arriva persino a
giustificare questo suo atteggiamento disgustoso. Non è forse questo il segno
di un’incurabile malattia occulta sepolta nei più bui meandri della sua
psiche?”

E. “Allora la tua Psicanalisi, dear Sigmund, potrà
avere ragione di questi mali sradicandone le cause più profonde, potrai
impedire che la bestialità umana inaridisca la ragione della nostra razza
studiando i recessi della psiche alla ricerca della metastasi da asportare.”

F. “Purtroppo la soluzione alle disgrazie umane non
è né così semplice né immediata: i miei studi mi hanno portato ad esplorare un
ambito dell’esistenza finora mai considerato, ma sia i miei esimi colleghi che
io siamo pervenuti alla medesima sconfortante conclusione. Il male umano, la
fonte di tutte le bestialità, la “metastasi”, come tu la chiami, che spinge
l’uomo ad atti contro ragione ed autodistruttivi, l’”es”, è ineliminabile. La
mente umana, che si regge su un fragile equilibrio, ha bisogno di questa
componente per mantenerlo: tentare di forzare la psiche, annientandone la parte
più irrazionale, equivarrebbe a togliere pesi dal piatto di una bilancia in
precario equilibrio; le conseguenze potrebbero essere incontrollabili e forse
più negative dell’attuale stato del sistema – genere umano.

Perciò, herr Albert, mi risulta impossibile sradicare
un male tanto profondamente incarnatosi nell’animo umano, divenuto parte
integrante ed indissolubile di esso. Non esistono cure miracolose né maghi né
Dio che possano magicamente dissolvere la fonte delle bestialità umane.”

E. “Allora agli uomini secondo la tua esperienza,
non resta alcuna speranza. L’umanità, come accaduto una ventina di anni fa, è
destinata ad autocannibalizzarsi nella guerra e nel perpetuo rancore sino al
totale annientamento, ottenuto che sia con il cannone o con il fosgene”

F. “Tale è il destino scritto nella nostra stessa
mente, se essa seguirà le sue pulsioni irrazionali. Ma le cose potrebbero non
procedere in questo senso, imboccando quella via che già Voltaire aveva
indicato con gli Illuministi, se pur probabilmente anticipando di quasi due
secoli l’effettiva possibilità di realizzazione del suo disegno.”

E. “Cosa intendi dire?”

F. “Il conflitto mondiale, che secondo un folto
gruppo di stolti potenti sarebbe stato causato da un manipolo di pazzi in
divisa con l’elmetto, non è stato altro che l’apogeo delle follie e delle
ambizioni di potenza di interi popoli europei, non di singoli individui.
Eppure, da questa indescrivibile tragedia forse l’umanità, prima cullatasi
nell’illusione di essere divenuta “migliore” o “più aperta” o “democratica”, ho
potuto trarre una lezione più efficace di qualsiasi psicanalisi, di qualsiasi
predica, di qualsiasi teoria filosofica o scientifica: per l’uomo è arrivato
necessariamente il momento di fare ammenda, di recitare un mea culpa ed
impegnarsi VERAMENTE e PERSONALMENTE (e non delegando uno psichiatra o un Dio)
per sradicare le sue componenti più bestiali, per contenere il suo es, per
agire moralmente.

E non sto parlando di morali eudemonistiche o di false
etiche dello Stato e della guerra come quella proposta da Hegel o da certi
regimi dei tempi nostri, ma di un collettivo e unanime impegno volto al reale
ed effettivo miglioramento del genere umano. Non si può neppure lontanamente
ipotizzare un mondo governato dalla ragione fino a quando si combatteranno
guerre imperialistiche, si imporranno paci inique, si incoraggeranno tutte le
più elementari forme di ingiustizia. In tali condizioni l’uomo sarà sempre e
comunque portato a dare voce alle proprie pulsioni, alle proprie ambizioni, ai
propri più perniciosi desideri. Prevarranno sempre e comunque coloro che
inganneranno con malizia, si imporranno con prepotenza, ruberanno con avidità,
sperpereranno con prodigalità, senza rispetto per alcuno dei propri simili.”

Fonte: http://www.liceoquadri.it/xausa/2002_3%20triennio%20segnalato.doc

Corrispondenza:

PERCHÈ LA GUERRA? Carteggio Albert Einstein – Sigmund
Freud

Lettera di Einstein a Freud – Gaputh (Potsdam), 30 luglio 1932

Caro signor Freud,
La proposta, fattami
dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione
intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco
scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita
occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente
condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla
civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della
guerra? E’: ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere
a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da
noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di
soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta
affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in
giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo
desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca
scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del
mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge
abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della
volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò
limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così,
su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta
conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono
determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un
vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i
confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno
estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo
immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di
affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati
creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i
conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i
decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di
accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa
ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la
prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, quanto meno è in
grado di far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle pressioni
stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e
forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla giustizia,
cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le
sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di
impone il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi
dal possedere una organizzazione sovrannazionale che possa emettere verdetti di
autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione
delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza
internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte
della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente
chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta
sicurezza.
L’insuccesso, nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo
decennio a realizzare questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui
operano forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi
fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato
contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato
desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi
mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro
che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione
sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi,
soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la
loro personale autorità.
Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato
inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano
oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile
che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la
massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando
della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la
guerra come loro professione convinti di giovare alla difesa dei più alti
interessi della loro stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di
difesa.) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli
che di volta in volta sono a1 potere ha in mano prima di tutto la scuola e la
stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di
organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria
politica.
Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e
fa sorgere una ulteriore domanda: com’è possibile che la massa si lasci
infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé?
Una
sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di
distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in
circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle
altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di
fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da
chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.
Arriviamo così all’ultima
domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in
modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della
distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte.
L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a
queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto
diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più
facile, quella della pagina stampata.
Concludendo: ho parlato sinora soltanto
di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente
consapevole del fatto che l’istinto aggressivo opera anche in altre forme e in
altre circostanze (penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al
fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di
minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e
pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione
migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili
tutti i conflitti armati.
So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte
esplicite o implicite a tutti gli interrogativi posti da questo problema che è
insieme urgente e imprescindibile. Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi
tutti se Lei esponesse il problema della pace mondiale alla luce delle Sue
recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e
validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente Suo
Albert
Einstein

La risposta di Freud

Caro signor Einstein,
Quando ho saputo che
Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le
interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di altri, ho acconsentito
prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del
conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo,
potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati
s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso con la domanda
su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della
guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia – starei
quasi per dire: della nostra – incompetenza, poiché questo mi sembrava un
compito pratico che spetta risolvere agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi
che Lei ha sollevato la domanda non come ricercatore naturale e come fisico,
bensì come amico dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti della Società
delle Nazioni così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché si
assunse l’incarico di portare aiuto agli affamati e alle vittime senza patria
della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che io
faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema della
prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo. Ma
anche a questo riguardo quel che c’era da dire è gia stato detto in gran parte
nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto un vantaggio, ma io viaggio
volentieri nella sua scia e mi preparo perciò a confermare tutto ciò che Lei
mette innanzi. nella misura in cui lo svolgo più ampiamente seguendo le mie
migliori conoscenze (o congetture).
Lei comincia con il rapporto tra diritto
e forza. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso
sostituire la parola “forza” con la parola più incisiva e più dura “violenza”?
Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che
l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana
per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci
appare senza difficoltà. Mi scusi se nel seguito parlo di ciò che è
universalmente noto come se fosse nuovo; la concatenazione dell’insieme mi
obbliga a farlo.
I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea
di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno
animale, di cui l’uomo fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si
aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione, che arrivano fino
alle più alte cime dell’astrazione e sembrano esigere, per essere decisi,
un’altra tecnica. Ma questa è una complicazione che interviene più tardi.
Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggiore forza muscolare decise a
chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere portata ad
attuazione. Presto la forza muscolare viene accresciuta o sostituita mediante
l’uso di strumenti; vince chi ha le armi migliori o le adopera più abilmente.
Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a
prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della
lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce
e dell’infiacchimento delle sue forze, deve essere costretta a desistere dalle
proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale
quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente, vale a dire lo
uccide. Il sistema ha due vantaggi, che l’avversario non può riprendere le
ostilità in altra occasione e che il suo destino distoglie gli altri dal seguire
il suo esempio. Inoltre l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione
pulsionale di cui parlerò più avanti. All’intenzione di uccidere subentra talora
la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili utili se
lo s’intimidisce e lo si lascia in vita. Allora la violenza si accontenta di
soggiogarlo, invece che ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma
il vincitore da ora in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del
vinto, sempre in agguato, e rinuncia in parte alla propria sicurezza.
Questo
è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta
o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel
corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma
quale? Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento che lo
strapotere di uno solo poteva essere bilanciato dall’unione di più deboli.
L’union fait la force. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la
potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione
alla violenza del singolo. Vediamo così che il diritto è la potenza di una
comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si
opponga, opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi scopi; la differenza
risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a
trionfare, ma quella della comunità. Ma perché si compia questo passaggio dalla
violenza al nuovo diritto deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione
dei più deve essere stabile, durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di
combattere il prepotente e si dissolvesse dopo averlo sopraffatto, non si
otterrebbe niente. Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe
di nuovo a dominare con la violenza, e il giuoco si ripeterebbe senza fine. La
comunità deve essere mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli
statuti che prevengano le temute ribellioni, istituire organi che veglino
sull’osservanza delle prescrizioni – le leggi – e che provvedano all’esecuzione
degli atti di violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale
comunione di interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei
legami emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del
gruppo.
Con ciò, penso, tutto l’essenziale è gia stato detto: il trionfo
sulla violenza mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che
viene tenuta insieme dai legami emotivi tra i suoi membri. Tutto il resto sono
precisazioni e ripetizioni.
La cosa è semplice finché la comunità consiste
solo di un certo numero di individui ugualmente forti. Le leggi di questo
sodalizio determinano allora fino a che punto debba essere limitata la libertà
di ogni individuo di usare la sua forza in modo violento, al fine di rendere
possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale stato di pace è pensabile solo
teoricamente, nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità fin
dall’inizio comprende elementi di forza ineguale, uomini e donne, genitori e
figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento,
vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e schiavi. Il diritto della
comunità diviene allora espressione dei rapporti di forza ineguali all’interno
di essa, le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano e concedono scarsi
diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da allora in poi vi sono nella
comunità due fonti d’inquietudine – ma anche di perfezionamento – del diritto.
In primo luogo il tentativo di questo o quel signore di ergersi al di sopra
delle restrizioni valide per tutti, per tornare dunque dal regno del diritto a
quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi costanti dei sudditi per
procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla legge questi mutamenti,
dunque, al contrario, per inoltrarsi dal diritto ineguale verso il diritto
uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene particolarmente notevole
quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di potere all’interno della
collettività, come può accadere per l’azione di molteplici fattori storici. Il
diritto si può allora conformare gradualmente ai nuovi rapporti di potere,
oppure, cosa che accade più spesso, la classe dominante non è pronta a tener
conto di questo cambiamento, si giunge all’insurrezione, alla guerra civile,
dunque a una temporanea soppressione del diritto e a nuove testimonianze di
violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo ordinamento giuridico.
C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che si manifesta solo in modi
pacifici, cioè la trasformazione dei membri di una collettività, ma essa
appartiene a un contesto che può essere preso in considerazione solo più
avanti.
Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può
venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti. Ma le necessità e le
coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune sulla medesima terra
favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le probabilità che in queste
condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in continuo aumento. Uno sguardo
alla storia dell’umanità ci mostra tuttavia una serie ininterrotta di conflitti
tra una collettività e una o più altre, tra unità più o meno vaste, città,
paesi, tribù, popoli, Stati, conflitti che vengono decisi quasi sempre mediante
la prova di forza della guerra. Tali guerre si risolvono o in saccheggio o in
completa sottomissione, conquista dell’una parte ad opera dell’altra. Non si
possono giudicare univocamente le guerre di conquista. Alcune, come quelle dei
Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità, altre al contrario hanno
contribuito alla trasformazione della violenza in diritto avendo prodotto unità
più grandi, al cui interno la possibilità di ricorrere alla violenza venne
annullata e un nuovo ordinamento giuridico riuscì a comporre i conflitti. Così
le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La
cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia
pacificamente unita, fiorente. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si
deve tuttavia ammettere che la guerra non sarebbe un mezzo inadatto alla
costruzione dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare
quelle più vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili
ulteriori guerre. Tuttavia la guerra non ottiene questo risultato perché i
successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si
disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti unite
forzatamente. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto
unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio i conflitti
sorti all’interno di queste unificazioni che hanno reso inevitabile il ricorso
alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che
l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre, tanto più
devastatrici quanto meno frequenti.
Per quanto riguarda la nostra epoca, si
impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una via più breve. Una
prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per
costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i
conflitti di interessi. Sono qui chiaramente racchiuse due esigenze diverse:
quella di creare una simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere che
le abbisogna. La prima senza la seconda non gioverebbe a nulla. Ora la Società
delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda
condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza
propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione – i singoli
Stati – gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che
ciò avvenga. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione come quella della
Società delle Nazioni, se ignorassimo il fatto che qui ci troviamo di fronte a
un tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella storia dell’umanità e forse
mai in questa misura. Essa è il tentativo di acquisire mediante il richiamo a
determinati princìpi ideali l’autorità (cioè l’influenza coercitiva) che di
solito si basa sul possesso della forza. Abbiamo visto che gli elementi che
tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i legami
emotivi tra i suoi membri (ossia, in termini tecnici, quelle che si chiamano
identificazioni). Nel caso in cui venga a mancare uno dei due fattori non è
escluso che l’altro possa tener unita la comunità. Le idee cui ci si appella
hanno naturalmente un significato solo se esprimono importanti elementi comuni
ai membri di una determinata comunità. Sorge poi il problema: Che forza si può
attribuire a queste idee? La storia insegna che una certa funzione l’hanno pur
svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere qualche cosa di
meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente espressione nelle
anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte per mitigare i
costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente non fu in grado
di impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del popolo ellenico,
e neppure fu mai in grado di trattenere una città o una federazione di città
dallo stringere alleanza con il nemico persiano per abbattere un rivale.
Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che pure fu abbastanza
potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati cristiani grandi e piccoli
di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre intestine. Anche nella
nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa attribuire un’autorità unificante
del genere. È fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi i popoli
sono dominati spingono in tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto la
penetrazione universale del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine alle
guerre, ma in ogni caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse sarà
raggiungibile solo a prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che il
tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il
momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto
che il diritto originariamente era violenza bruta e che esso ancor oggi non può
fare a meno di ricorrere alla violenza.
Posso ora procedere a commentare
un’altra delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile
infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente
qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere
un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza
riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale istinto e negli ultimi anni
abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in
proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella
psicoanalisi dopo molti passi falsi e molte esitazioni?
Noi presumiamo che le
pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare
e a unire – da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel
Convivio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto
popolare di sessualità, – e quelle che tendono a distruggere e a uccidere;
queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o
distruttiva.
Lei vede che propriamente si tratta soltanto della dilucidazione
teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e che
forse è originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che
interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo
rapidamente ai valori di bene e di male. Tutte e due le pulsioni sono parimenti
indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal
loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire
isolatamente, essa è sempre legata – vincolata, come noi diciamo – con un certo
ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, solo così ne
permette il raggiungimento. Per esempio, la pulsione di autoconservazione è
certamente esotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per
compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta a
oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole
impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni
nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle.
Se
Lei è disposto a proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni umane
rivelano anche una complicazione di altro genere. E’ assai raro che l’azione sia
opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una
combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi
similmente strutturati per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi
l’aveva già avvertito, un certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava
fisica a Gottinga al tempo dei nostri classici; ma forse egli era anche più
notevole come psicologo di quel che fosse come fisico. Egli scoprì la rosa dei
moventi, nell’atto in cui dichiarò: “I motivi per i quali si agisce si
potrebbero ripartire come i trentadue venti e indicarli con nomi analoghi, per
esempio ‘Pane-Pane-Fama’ o ‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini
vengono incitati alla guerra, è possibile che si destino in loro un’intera serie
di motivi consenzienti, nobili e volgari, quelli di cui si parla apertamente e
altri che vengono taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di
aggredire e distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della
storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il
fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici
e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando
sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi
ideali siano serviti da paravento alle brame di distruzione; altre volte,
trattandosi per esempio crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali
fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro
un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.
Ho qualche
scrupolo ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla prevenzione della
guerra e non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei intrattenermi ancora un attimo
sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua
importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo convinti che essa opera in ogni
essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre
la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il
nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare
gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva
allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli
oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita
distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane
attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta
una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della
pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine
della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso
l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto
troppo oltre in modo diretto; in questo caso è certamente malsano. Invece il
volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica
l’essere vivente e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa
biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi
combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo
sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una
spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie di
mitologia, in questo caso neppure festosa. Ma non approda forse ogni scienza
naturale in una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo
della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede
ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze
aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre a
profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci sono popoli la cui vita scorre
nella mitezza. presso cui la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Posso
a malapena crederci; mi piacerebbe saperne di più, su questi popoli felici.
Anche i bolscevichi sperano di riuscire a far scomparire l’aggressività umana,
garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza
sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della comunità. Io la ritengo
un’illusione. Intanto, essi sono diligentemente armati, e fra i modi con cui
tengono uniti i loro seguaci non ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli
stranieri. D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire
completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non
debba trovare espressione nella guerra.
Partendo dalla nostra dottrina
mitologica delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le
vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto
della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di
questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini
deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo
luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che
si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi
se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo
tuo come te stesso”.
Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma
difficile da attuare. L’altro tipo di legame emotivo è quello per
identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini
risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse
riposa in buona parte l’assetto della società umana.
L’abuso di autorità da
Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la
tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra
gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la
stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per
loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a
questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto
finora all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di
indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della
verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia.
Che le intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla
Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di
dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che
avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione.
Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così
tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni
probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire
indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun
rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la
gente muore di fame prima di ricevere la farina.
Vede che, quando si consulta
il teorico estraneo al mondo per compiti pratici urgenti, non ne vien fuori
molto. E’ meglio se in ciascun caso particolare si cerca di affrontare il
pericolo con i mezzi che sono a portata di mano. Vorrei tuttavia trattare ancora
un problema, che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa
particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti
altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della
vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata
biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la
domanda. Al fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito fingere un
distacco di cui in realtà non si dispone. La risposta è: perché ogni uomo ha
diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di
promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li
costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge
preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora.
Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di
attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del
perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o
forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile
che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora
ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità. Qualcuno dei punti qui
enumerati può evidentemente essere discusso: ci si può chiedere se la comunità
non debba anch’essa avere un diritto sulla vita del singolo; non si possono
condannare nella stessa misura tutti i tipi di guerra; finché esistono stati e
nazioni pronti ad annientare senza pietà altri stati e altre nazioni, questi
sono necessitati a prepararsi alla guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente
su tutto ciò, giacché non è questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho
in mente qualcos’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo
contro la guerra è che non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti perché
dobbiamo esserlo per ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il nostro
atteggiamento con argomentazioni.
So di dovermi spiegare, altrimenti non sarò
capito. Ecco quello che voglio dire: Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta
al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo
processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti
e buona parte di ciò di cui soffriamo.
Le sue cause e origini sono oscure, il
suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente visibili. Forse porta
all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la
funzione sessuale, e già oggi si moltiplicano in proporzioni più forti le razze
incolte e gli strati arretrati della popolazione che non quelli altamente
coltivati. Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe
specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si
è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico
di tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento
sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento
progressivo delle mete pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri progenitori erano
cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura
intollerabili; esistono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze
ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della
civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che
comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività,
con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra
contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è
imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa:
semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto
intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza
costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le
degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte
molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli
altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza
utopistica che l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile e il
giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alle guerre
in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo
indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione
civile lavora anche contro la guerra.
La saluto cordialmente e Le chiedo
scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.
Suo Sigm. Freud

 

la bellezza

la bellezza della vita è  che ti da ogni giorno un pezzo di strada da percorrere,

e per quanto possa essere simile,  non è mai uguale al giorno precedente.

Con umiltà ogni giorno puoi permettere alla vita di sorprenderti ed insegnarti l’arte del conoscere se stessi….perchè la vita sia messa a frutto….ed alla fine dei propri giorni guardandosi indietro si possa essere soddisfatti dell’uso del dono ricevuto.

Delle azioni commesse, delle azioni auto-censurate, delle parole dette, delle parole taciute, dei pensieri rimasti tali, dei pensieri trasformati in opere.

 

 

donne in rinascita

Più dei tramonti, più del volo di un uccello, la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita. Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta. Che uno dice: è finita. No, finita mai, per una donna. Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede, anche se non vuole. Parlo di te, che questo periodo non finisce più, che ti stai giocando l’esistenza in un lavoro difficile, che ogni mattina è un esame, peggio che a scuola. Te, implacabile arbitro di te stessa, che da come il tuo capo ti guarderà deciderai se sei all’altezza o se ti devi condannare. Così ogni giorno e questo noviziato non finisce mai. E sei tu che lo fai durare. Oppure parlo di te, che hai paura anche solo di dormirci, con un uomo; che sei terrorizzata che una storia ti tolga l’aria, che non flirti con nessuno perché hai il terrore che qualcuno s’infiltri nella tua vita. Peggio: se ci rimani presa in mezzo tu, poi soffri come un cane. Sei stanca: c’è sempre qualcuno con cui ti devi giustificare, che ti vuole cambiare, o che devi cambiare tu per tenertelo stretto. Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa. Eppure te la racconti, te lo dici anche quando parli con le altre: “Io sto bene così. Sto bene così, sto meglio così”. E il cielo si abbassa di un altro palmo. Oppure con quel ragazzo ci sei andata a vivere, ci hai abitato Natali e Pasqua. In quell’uomo ci hai buttato dentro l’anima ed è passato tanto tempo e ne hai buttata talmente tanta di anima che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio perché non sai più chi sei diventata. Comunque sia andata, ora sei qui e so che c’è stato un momento che hai guardato giù e avevi i piedi nel cemento. Dovunque fossi, ci stavi stretta: nella tua storia, nel tuo lavoro, nella tua solitudine. Ed è stata crisi. E hai pianto. Dio quanto piangete! Avete una sorgente d’acqua nello stomaco. Hai pianto mentre camminavi in una strada affollata, alla fermata della metro, sul motorino. E quella notte che hai preso la macchina e hai guidato per ore, perché l’aria buia ti asciugasse le guance? E poi hai scavato, hai parlato. Quanto parlate, ragazze! Lacrime e parole. Per capire, per tirare fuori una radice lunga sei metri che dia un senso al tuo dolore. “Perché faccio così? Com’è che ripeto sempre lo stesso schema? Sono forse pazza?” Se lo sono chiesto tutte. E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia, a due, a quattro mani e saltano fuori migliaia di tasselli. Un puzzle inestricabile. Ecco, è qui che inizia tutto. Non lo sapevi? E’ qui; da quel grande fegato che ti ci vuole per guardarti così scomposta in mille coriandoli che ricomincerai. Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto che la trascinerà sempre avanti. E’ un’avventura, ricostruire se stesse. La più grande. Non importa da dove cominci, se dalla casa, dal colore delle tende o dal taglio di capelli. Vi ho sempre adorato, donne in rinascita, per questo meraviglioso modo di gridare al mondo “sono nuova” con una gonna a fiori o con un fresco ricciolo biondo. Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia. Per chi la incontra e per se stessa. È la primavera a novembre. Quando meno te l’aspetti…

Fabio Volo

Donne…

Donne mie che siete pigre,
angosciate, impaurite,
sappiate che se volete diventare persone
e non oggetti, dovete fare subito una guerra
dolorosa e gioiosa, non contro gli uomini,
ma contro voi stesse che vi cavate gli occhi
con le dita per non vedere le in giustizie che vi fanno.
Una guerra grandiosa contro chi
vi considera delle nemiche, delle rivali,
degli oggetti altrui; contro chi vi ingiuria
tutti i giorni senza neanche saperlo,
contro chi vi tradisce senza volerlo,
contro l’idolo donna che vi guarda seducente
da una cornice di rose sfatte ogni mattina
e vi fa mutilate e perse prima ancora di nascere,
scintillanti di collane, ma prive di braccia,
di gambe, di bocca, di cuore,
possedendo per bagaglio
solo un amore teso, lungo, abbacinato e doveroso
(il dovere di amare vi fa odiare l’amore, lo so)
un amore senza scelte, istintivo e brutale.
Da questo amore appiccicoso e celeste
dobbiamo uscire
donne mie,
stringendoci fra noi per solidarietà
di intenti, libere infine di essere noi
intere, forti, sicure, donne senza paure.
Dacia Maraini

Auguri a tutte le donne, tutti i giorni dell’anno, auguri anche a Te.

🙂

Dimenticavo…..fino a domani (11 marzo 2012) è possibile aiutare la Fondazione Doppia difesa  inviando un sms al numero 45503.. un vero regalo alle donne che hanno bisogno di aiuto!!! 

http://www.tgcom24.mediaset.it/televisione/articoli/1035835/un-sms-al-45503-contro-la-violenza-sulle-donne.shtml 

lasciar andare

Lasciar andare non significa smettere d’aver cura, ma comprendere che non si può agire al posto degli altri.

Lasciar andare non è chiamarsi fuori, ma rendersi conto che non si possono controllare gli altri.

Lasciar andare non è far sì che gli altri imparino dalle naturali conseguenze dei loro atti, ma permettere loro di farlo.

Lasciar andare non è un’ammissione d’impotenza, ma comprensione che il risultato non dipende da noi.

 Lasciar andare non è biasimare gli altri o cercare di cambiarli, ma tirar fuori il meglio da se stessi.

Lasciar andare non è giudicare, ma permettere agli altri di essere umani.

Lasciar andare non è mettersi in mezzo a dirigere tutto ma permettere agli altri di compiere i loro destini.

Lasciar andare non è non essere protettivi, ma permettere agli altri di affrontare la realtà.

Lasciar andare non è negare, ma accettare.

Lasciar andare non è brontolare, riproverare o discutere, ma vedere i propri difetti e correggerli.

Lasciar andare non è conformare ogni cosa ai propri desideri, ma prendere ogni giorno come viene avendo cura di se stessi.

Lasciar andare non è criticare o mettere a posto gli altri, ma cercar di diventare ciò che si aspira ad essere.

Lasciar andare non è piangere sul passato, ma crescere e vivere per il futuro.

Lasciar andare è aver meno paura e amare di più.

«Amare è lasciar andare la paura».

fonte: http://www.testesso.com

🙂 un altro sassolino raccolto da un’amica di blog, LaChan, grazie!!!

di cose così bisognerebbe leggerne ogni giorno un bel mucchio….penso che la vita migliorerebbe per tutti.

io adesso vorrei tanto lasciar andare tutte le scartoffie del mio lavoro…..non ce la faccio più!

sono diventata allergica al nostro sistema fiscale: dopo 24 anni di lavoro nel settore…..mi ritengo usurata!!!

basta….vado a vendere granite….ops…..mi correggo: grattachecche!!!!!

un abbraccio al  mondo, smile 🙂

 

diversamente giovane…e croccante!!!

 

L’altro ieri mi ha chiamato un “vecchio” cliente in ufficio….e mi ha divertito moltissimo il suo modo di dire parlando della sua età:

“non sono vecchio, sono diversamente giovane”

hahhahahhahahha…..me la sono segnata….troppo forte!!!

quindi….caro mondo si sappia:

io non sono vecchia, sono diversamente giovane.

e non si dica che sono “grassa”, sono diversamente magra,

e non sono scema….sono diversamente intelligente….

ahahhahahahahahah e non finisce qui!!!!

sono pure CROCCANTE, mica ‘na vecchietta flaccida!!!

Comunque le belle giornate continuano e anche il mio umore resta alto, la dieta prosegue e anche un pochettino di movimento appena posso tento di farlo!

Mi son concessa un paio di mesi di deriva, di sospensione di ogni attività….anzi…di completo rilassamento…e si…mi ha fatto bene!

e stasera serata con gli amici a casa a vedere un bel film…..niente uscite costose, qui non ci stà un euro!!! Per fortuna sorridere, giocare a carte con gli amici, vedere un bel film a noleggio non costa niente! E neppure ammazzarsi giocando a Risiko…..hahhahahha…abbiamo ripreso la scatola del risiko, l’abbiamo spolverata e abbiamo ricominciato a giocare: guerra dura senza paura. E che litigate con chi ruba i territori e ti attacca pure se non dovrebbe…..forse è anche questo piccolo ritorno ai miei magici anni ’80 che mi sta togliendo dallo stallo e mi riporta alla gioia…oltre ovviamente all’essere sempre innamorata di due chicchi e della vita….essere innamorati è la miglior medicina per tutto. 🙂

🙂

buona serata mondo!!! smackkkkk

adesso mi sento felice!!!

Pausa pranzo….sempre poco tempo, ma riesco a sfruttarlo al meglio. Un’oretta scarsa di libertà….per una passeggiata nel parco per rilassarmi e ritrovare armonia con me stessa e il mondo. Per un giretto per vetrine a far fanta-shopping….euro in tasca poco o niente …ma entusiamo a guardare questo e quello tanto.

Per un caffè da un amico con il quale c’è tanta sintonia….che per fortuna abita a pochi passi dall’ufficio.

Oggi ho fatto un gran bel giro! Un salto al parco…..che meraviglia!!!!!!!!!!!

chi avrebbe detto che avrei trovato margheritine

e Nontiscordardime

dove una settimana fa c’era la neve???? E la giornata si è illuminata, ancor più illuminata.

Ricordate quando scrissi che mi sentivo esausta….che era tempo di stare ferma, immobile, distesa virtualmente in un mio piccolo mondo? Fatto! E mi ha fatto bene…..sto meglio. Comincio a sentire d nuovo la voglia di fare….e questa sorpresa di aria di primavera di questi giorni mi aiuta. Madre Natura sorride 🙂

arrivata in ufficio…la voglia di raccontarlo a voi…ed eccomi qui! E per coronare degnamente il tutto…..parole di Madre Teresa sulla Felicità! Me le gusto come un gelato buonisssimo che fa bene all’anima!!! baci a tutto il mondo, smackkkkk

 

Non aspettare di finire la scuola,

di innamorarti,

di trovare lavoro,

di sposarti,

di avere figli,

di vederli sistemati,

di perdere quei dieci chili;

 

che arrivi venerdì sera,

o domenica mattina,

la primavera, l’estate, l’autunno, l’inverno…

 

Non c’è momento migliore di questo per essere felice!

 

La felicità è un percorso, non una destinazione.

 

Lavora come se non avessi bisogno di denaro,

Ama come se non ti avessero mai ferito.

Balla come se non ti vedesse nessuno

 

Ricordati che la pelle avvizzisce,

i capelli divantano bianchi

e i giorni anni… ma quello che è importante non cambia.

 

la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è il piumino che toglie qualsiasi ragnatela
Dietro ogni linea di arrivo c’è una linea di partenza.
Dietro ogni successo c’è un’altra delusione

Dietro ogni risultato c’è una nuova sfida

 

Finchè sei vivo sentiti vivo

Vai avanti anche quando tutti si aspettano che lasci perdere

 

innamoratevi

….innamoratevi!!!! Tutti i giorni dell’anno, tutti i giorni della vita.

smackkkkkkkkkkkkkkkkk

 

[youtube AuHOxwO4xKg]

Ciao Daniela, ciao Lindarc

Ti pensavo stamattina, ti penso spesso. Ti avevo mandato un messaggino per gli auguri di capodanno…ma non avevo ricevuto risposta. Pensai “forse ha cambiato numero di cellulare”. Oggi avevo bisogno di poesia….e in questo mondo ho incontrato due persone che con le loro parole parlano al mio cuore. Tu, Daniela, e Patrizia. Tutte conosciute in questo mondo…blog che svelano anime, persone, sentimenti, pensieri. E sono andata a sbirciare sul tuo blog…per vedere se per miracolo ci fosse stata qualche novità:

www.lindarc.blog.tiscali.it

nulla…..però so che continuavi a scrivere le tue poesie in giro per il web…e su un motore di ricerca ho cliccato il tuo “nickname”: Lindarc. E’ uscito il club dei poeti….ed ho aperto la pagina segnalata.

http://vetrina.clubpoeti.it/article.php?story=20111230123620759

“leggo che Daniela ‘lindarc’ ha iniziato prima di noi un viaggio, che, sono certo, la porterà alla presenza di ogni cosa bella. Io voglio solo salutarla. Di Lei ho una lettera, in cui, dolcemente e fermamente, mi rimprovera di non aver capito il dolore personale dietro una Sua poesia. Io, testone, Le ho risposto e ho capito qualcosa che non sapevo. Quella risposta Lei sola la sa e se La porta nel mondo di bellezza, che adesso certo frequenta. (….) La leggevo e Le dicevo quello che pensavo, nel bene e nel male, per rispetto, ma, in fondo, anche perchè sentivo che quello che di Lei leggevo non era senza peso. Adesso Le mando un ciao e Le soffio un baciamano che spero La raggiungerà dov’è, io non credo troppo lontano da noi, che restiamo qui in basso. Ciao lindarc. Ciao Daniela. nicky
30 dicembre 2011

Così ho saputo che non ci sei più.

Ci siamo incontrate…in qualche occasione in cui passavi per Roma. Mi hai invitato diverse volte da te…ma…io non ho mai raccolto il tuo invito. Quanto me ne pento…non hai idea.

Ricordo la tua dolcezza, la tua leggerezza. Tu eri esattamente come le poesie che scrivevi.

Ti ricordo qui a San Paolo, vicino alla metropolitana….ci incontrammo per la prima volta dopo tante poesie, dopo tante parole: i saluti…un abbraccio. Non ci eravamo mai viste ma era ininfluente…ci conoscevamo comunque. Avevamo condiviso dolore, risate, giochi d’ironia per andare avanti. Ti chiesi se ti piaceva mangiare cibo cinese….eri elegantissima con un tailleur dai colori chiari…il foular che ti avvolgeva il collo…..dolcissima…e dolcissimo era il tuo modo di parlare, ed avevi il sorriso di una farfalla, colorato, leggero, delicato.

Andammo in un piccolo ristorantino vicino casa mia, hai fatto di tutto per farmi sentire a mio agio, tu eri perfetta dovunque.  Parlammo dei nostri figli, delle nostre aspirazioni, dei nostri sogni e di quanto è difficile sopravvivere alla realtà, alle difficoltà di una vita uscita dagli schemi predefiniti.

Ricordo il nostro incontro al Palazzo delle Esposizioni all’Eur c’era una fiera del Libro e decidemmo di incontrarci lì….ti presentai mio figlio, tu eri con altre persone e dopo i saluti ognuno fece i suoi giri e poi ci salutammo…tu e la tua eleganza siete andate via…ma ci ritrovammo di nuovo.

Ci ricordo sedute al tavolino di una sala in un hotel su Via Aurelia…un altro dei tuoi brevi soggiorni a Roma….a chiacchierare di tutto e di niente.

Anni fa come oggi….io e te a rincorrere i desideri del cuore….e ci univa anche un nome….lo stesso nome della persona amata “Franco”.

Mio figlio adesso non capirebbe cosa sto provando, forse riderebbe di me adesso, come fa ogni volta che vedo un film d’amore o di sofferenze e non riesco a trattenere qualche lacrima…..ma non riesco a bloccare quel che sento adesso dentro di me.

Eri una persona meravigliosa…in questo mondo pieno di brutture. Tu sei andata via…e si è spenta una luce amica….mi sento un pochino più sola.

Ti saluto qui….con la tua poesia che ho sempre preferito. E voglio pensare che  quella che ti ha portata via …sia stata una notte magia.

 (SUCCESSE LA NOTTE IN CUI S’ALZÒ D’IMPROVVISO IL VENTO, GLI UOMINI APRIRONO LE BRACCIA E COME BAMBINI SI FINSERO AEROPLANII)

QUELLA SERA
SI ERA FERMATA, LA PIAZZA
QUASI CERA COLATA
QUASI IL RIFLESSO DI UNA STANCHEZZA DI STARE
PIETRE COL SOLE IMPRIGIONATO DENTRO

POI , DA UN LONTANO NON SO
GIUNSE QUELL’ARIA MISTERO.
FUMMO I PRIMI A SENTIRLA
MA DECLINAMMO L’INVITO
FORSE IL TIMORE DI DISPERDERCI IN VOLO.

VI FU INVECE CHI
APRÌ LE SUE ALI
E SI LASCIÒ TRASPORTARE
PER UN SOFFIO DI GIOSTRA

E COSÌ FECE UN ALTRO
E UN ALTRO ANCORA
RAGGIUNGENDO ALL’ISTANTE
LA VETTA DEL SOGNO.

PIÙ IN LÀ
LA NOTTE MAGIA
BRINDAVA ALLA LUNA
CON CRISTALLINE CROME

IL SUONATORE DI BICCHIERI
S?INCHINÒ AL PASSAGGIO
TRA UN IERI E UN DOMANI

è una storia vera vista con gli occhi sognanti di chi è innamorato della vita

 Ciao Daniela……mi lasci un vuoto dentro, ma….abbiamo sempre sorriso insieme anche delle cose meno belle….e adesso voglio salutarti così, con un bacione, un abbraccione, un sorrisone….anzi! Come dicevi Tu ..uno struccone forte forte